giovedì 1 aprile 2010

Un testo molto interessante...

Riceviamo e pubblichiamo:



ULTIMA NOVITA' SUL FASCISMO CLANDESTINO DEL MEZZOGIORNO:



LA STAGIONE DELL’IRA
di Nando Giardini
Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009
La storia d’Italia nella seconda guerra mondiale continua ad interessare gli studiosi e il pubblico. Si comincia a capire che «fu la lotta dei popoli giovani, portatori di una nuova superiore morale, contro quelli vecchi, cioè delle nazioni proletarie, contro le plutocrazie, espressione dei beati possidenti», come aveva scritto Renzo De Felice; fu la “lotta del sangue contro l’oro”.
Nando Giardini, subì dal 1944 al 1946 una dura carcerazione per aver tentato di opporsi agli invasori angloamericani insieme ad altri giovani e meno giovani, avanti negli anni questi ultimi, ma giovani nel cuore. Il Giardini, calabrese, ma girovago per il mondo, curioso osservatore, ha inviato articoli dal Cile, Perù, Argentina, Cecoslovacchia, Uruguay, Brasile, Australia, USA, Venezuela, Cuba, Canada, Singapore. ha pure scritto quest’anno il libro testimonianza, ma non solo, La stagione dell’Ira, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009, in cui riferisce la storia del processo degli ottantotto fascisti di Calabria, che si tenne a Catanzaro dal 1944 al 1945. Nando Giardini aveva raccontato già la vicenda dei fascisti clandestini del Sud nel suo appassionato libro Bocca di lupo, di cui ha curato in seguito diverse edizioni, arricchendole di citazioni, riflessioni e descrizioni. Quest’ultima versione riesce completamente nuova per il sapore intimistico e introspettivo, per le analisi sociologiche del regime carcerario che traspaiono dagli episodi scolpiti a tutto tondo con una prosa e uno stile spontaneo che si cala nell’intimo più profondo alla ricerca di elementi poetici, ma non per questo disdegnando di indagare nella psiche sotterranea e sconosciuta di detenuti comuni, autori di feroci delitti, uno di essi ergastolano.
Già allo sbarco degli angloamericani in Sicilia si ebbero episodi di resistenza di fascisti clandestini che affiancarono le truppe regolari nei combattimenti e che poi si dedicarono alla lotta clandestina, come risulta anche dall’Archivio dello Stato ( segnalazioni dei Carabinieri Reali, della Polizia e dei prefetti).
In Calabria il movimento di resistenza fu in parte organizzato dal principe Valerio Pignatelli che riuscì a collegare nuclei di fascisti clandestini sparsi in diverse città e paesi della Calabria; ma in molti altri paesi, specialmente della provincia di Reggio Calabria le attività dei fascisti clandestini restarono spontanee e slegate. I carabinieri riuscirono a scoprire soltanto i nuclei organizzati di Cosenza, con Luigi Filosa, di Catanzaro, con il tenente Pietro Capocasale e l’universitario Aldo Paparo, di Crotone con il marchese Gaetano Morelli, maggiore di fanteria in congedo e con Giuseppe scola e i suoi due figli, di Nicastro-Sanbiase con Lionello Fiore Melacrinis, studente liceale. Fu così imbastito il cosiddetto “processo degli ottantotto”.
Qualche anno fa il professor Giuseppe Parlato, rettore dell’università San Pio V, di Roma, ha scritto l’ottimo libro Fascisti senza Mussolini, scientificamente obiettivo e valido, ma ormai non sono pochi i docenti universitari che indirizzano ricerche e approfondimenti su questa fase della storia nazionale ancora tra le più controverse per i tirannici veti d’oltreatlantico che tengono prigioniera la nostra cultura e in particolare la nostra storiografia. A conferma voglio citare alcune tesi di laurea che hanno affrontato ufficialmente la ricerca storica del periodo cruciale dell’invasione “alleata”. Già nel 2002 Angelo Abis nella sua tesi di specializzazione per la Scuola di specializzazione di studi sardi della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari svolgeva un ampio e documentato studio: I sardi nella Repubblica Sociale Italiana e il fascismo clandestino in Sardegna. Qualche anno dopoGaetano Fatuzzo nella sua tesi di laurea per l’Università di Catania affrontava il tema: L’invasione alleata del luglio 1943: sommovimenti sociali, il Fascismo epurato e clandestino; il “Non si parte”. È poi recente la dettagliata e ben documentata tesi di laurea presentata nel 2009 alla facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma da Valentina Castanò su: L’attività clandestina dei militanti di Salò nel Regno del Sud: il processo degli ottantotto a Catanzaro, tesi citata nel sito dell’Istituto di studi storici economici e sociali (Isses) di Napoli e di prossima pubblicazione da una perspicace casa editrice d’avanguardia.
Tornando all’ultimo bel libro di Nando Giardini, si deve notare che, contrariamente a quanto ancora traspare dalla faziosità e l’improbabilità delle vicende e pure della realizzazione della fotografia, con cui la Rai ci ha ammannito la cosiddetta “fiction” Il sangue dei Vinti, la penna serena e pacata di Giardini ci trasporta in una realtà vissuta con grande rispetto della vita, in cui le bombe che i fascisti facevano esplodere nel Nicastrese alle porte degli antifascisti più fanatici o sulle finestre di una caserma dei Carabinieri Reali, o addossate alle serrande di qualche tipografia comunista non hanno mai fatto scorrere una goccia di sangue. Nel Regno del Sud non ci fu guerra civile; eppure sarebbe stato peraltro facile imbastire un attentato per ottenere una strage peggiore di quella delle Fosse Ardeatine, come ci insegna l’ottimo Giorgio Bocca: « Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce ».
I fascisti del Sud no; non vollero provocare rappresaglie. Non era nel loro dna. D’altro canto anche Mussolini dalla Rsi si preoccupava di raccomandare di non provocare la guerra civile, di risparmiarla almeno al Sud.
Da Radio Bari e poi da Radio Napoli, invece, si incitavano gli antifascisti del Nord a uccidere alle spalle, a scavare il fosso dell’odio: si davano gli indirizzi delle persone da ammazzare, precisando abitudini e dati utili per gli agguati. Si paracadutavano armi, munizioni, esplosivi e denaro.
Forse tanti storici distratti dovrebbero ricordare quel che ha scritto Giorgio Bocca per ammettere finalmente con serena obiettività, con il tanto decantato metodo tacitiano, sine ira et studio, la responsabilità del solco di odio che ancora divide gli italiani. Serena obiettività, sine ira et studio, riesce, invece, a conservare, con grande pulizia morale, Nando Giardini, quando testimonia le vicende dei cospiratori calabresi in contatto col leggendario principe Valerio Pignatelli e con la principessa Maria, guidati da una personalità carismatica, volitiva e indipendente come Luigi Filosa, singolare figura di fascista dissidente che ebbe l’ardire di opporsi a Mussolini quando questi rinunziò alla pregiudiziale repubblicana nella storica riunione del 24 ottobre 1922 a Napoli, in preparazione della fatidica “Marcia” del successivo incombente 28.
Giudicando a posteriori, potrebbe sembrare velleitaria tanta animosità di giovani, male e poco armati, al Sud e di anziani nostalgici di passati trionfi nella lotta contro la tirannia mondiale della cosiddetta “alta finanza” (che preferirei chiamare “grosso capitale apolide”), annidato perfino nei corridoi della Società delle nazioni. Ma dovrebbe bastare, per intuirne la prospettiva, quel che Filosa ha poi rivelato, prendendo spunto dagli attentati del gruppo di Nicastro:«Questa specie di azioni intimidatorie non erano da me approvate. Servivano soltanto ad allarmare e a rendere difficoltosa la vita dell’organizzazione che si andava formando. Secondo me bisognava aspettare la tanto strombazzata offensiva di Graziani e quindi far saltare i tralicci che dalla Sila portavano l’energia elettrica alle ferrovie meridionali. Si sarebbe messo lo scompiglio nelle retrovie dei cosiddetti alleati. Di questo gli alleati stessi erano convinti […..] e avevano dislocato dei loro reparti in Sila per presidiare i laghi [dov’erano le centrali idroelettriche]. I tralicci erano però indifesi”».
Il libro di Nando Giardini, come traspare dal titolo, è una rivisitazione dell’epoca, appassionata e suggestiva, ma fedele e obiettiva, senza rancore e con distaccata serenità anche quando ricorda lo strazio delle celle di punizione o tratta delle traduzioni con i pesanti “ferri da campagna” stretti ai polsi, dapprima per essere messi a disposizione dell’OSS (Servizio segreto americano) nel carcere napoletano di Poggioreale. Per alcuni, poi, fu ritenuto necessario tradurli ancora nel carcere romano di Regina Coeli. Quindi furono riportati tutti nel carcere di Catanzaro per il processo imbastito dal Tribunale Militare Territoriale di Guerra, durato fino all’aprile del 1945, e dopo la condanna, dispersi in parte nel carcere di Melfi (PZ) e in parte nel penitenziario di Procida.
Di queste vicende carcerarie, opportunamente integrate con contemporanei, incantati ricordi della vita in libertà, con citazioni letterarie, con l’introspezione delle reazioni alle situazioni drammatiche in cui fu coinvolto, Nando Giardini riesce a darci un corale cantico lirico, avvincendo il lettore fino all’ultima pagina.
Nando scriveva i suoi pensieri in carcere in quaderni pieni di ardore e di qualche comprensibile “sdolcinatura”; Luigi Filosa, avendo letto uno dei suoi quaderni, gli consigliò di non ricorrere alle sdolcinature. Più tardi gli dettò con qualche enfasi di curiale retorica (era avvocato penalista) questi consigli, che Nando scrupolosamente scrisse nel suo quadernetto, poggiato sul ripiano in cemento della finestra, e che ora ha riprodotto affettuosamente, quasi religiosamente nel libro: «Quando una cosa è vissuta, la si esprime e la si può esprimere con grande senso artistico. A questo sei riuscito. La penna, se la affila il dolore, diventa tagliente.
La tua diventa spesso d’una mordacità tagliente fino alla forza dello sfregio, proprio perché quasi scherza con madama Disperazione e monsignor Disprezzo.
Io che sono nato amaro, ti auguro che sulla pietra affilatrice del disprezzo tu possa continuare a temprare la tua penna, facendo cadere su di essa, affinché ne sia attutito l’attrito, le gocce ardenti della tua fede».
Tempi retorici. Nando Giardini se ne è emendato. Oltre il più famoso Bocca di Lupo, ha scritto: Lettere d’una vita; Racconti d’oggi; Quasi un romanzo; e di prossima pubblicazione: Quel villaggio sulla collina.
Nell’Antologia di scrittori del 900 di Massimo Donato e Giuseppe Serio si legge: «C’è nel mondo lirico del Giardini “quella pena di viver così” di cui parla il Momigliano a proposito di Pirandello ».
Nando Giardini, La stagione dell’ira, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009.

Il testo si può richiedere presso la sede della Delegazione Romana Istituto storico RSI, si ringrazia per la segnalazione il sito www.libridecimarsi.blogspot.com

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