domenica 18 ottobre 2009

Recensione Film Bastardi senza gloria

Riceviamo e pubblichiamo:



Tratto da Rinascita Di Claudio Asciuti Preceduto dall’enfasi di tutti i critici “democratici”, un volta tanto uniti agli “atlantici” nel tessere le lodi, è approdato agli schermi Bastardi senza gloria (Inglorius Bastards, 2009) film “bellico” sceneggiato e diretto da Quentin Tarantino. Due storie che alla fine si raccordano: la caccia ai nazisti da parte di un commando di ebrei americani, guidato dal capitano Aldo Raine, detto l’Apache (un imbolsito e poco convincente Brad Pitt), e la ricerca della vendetta da parte di Shoshana (l’altrettanto poco convincente Melanie Laurent) la ragazza ebrea sfuggita al massacro della famiglia ad opera del colonnello delle SS Hans Landa (Christopher Waltz, invece bravissimo, vincitore a Cannes del premio per la miglior interpretazione maschile), e in cerca di vendetta. Nel cinema di proprietà della ragazza, ereditato dalla famiglia che l’ha adottata, quando gli stati maggiori del Reich convengono per la “prima” di un film propagandistico voluto da Goebbels, lei e il suo aiutante-amante nero danno fuoco al cinema, mentre i “bastardi senza gloria” per conto loro sparano e fanno esplodere la dinamite. Grazie anche al tradimento di Landa, che scoperti i “bastardi” baratta un futuro “americano” con il silenzio, incendio e attentato riescono…
Film bellico molto sui generis quindi, magari “film bellico di fantascienza ucronica”, che tratta di una realtà parallela in cui le cose non si sono svolte proprio come nel nostro mondo. Ma anche film di gangster, perchè il commando è composto dai peggiori delinquenti possibili, e le poche sparatorie visibili sembrano quelle di un’eliminazione o di uno scontro fra gang (completo anche di “stallo messicano”, il meccanismo in cui tutti si puntano reciprocamente addosso le armi pronti a sparare). E anche riflessione sul cinema, poiché quel che accade è comunque legato all’immagine cinematografica e al suo potere evocativo (e anche distruttivo): da “il sergente York tedesco”, il cecchino (Daniel Brühl) che ha resistito da solo tre giorni uccidendo un gran numero di soldati (il riferimento è al film Il sergente York (1941) di Howard Hawks, sulle vicende di un quacchero nella prima guerra) alle insegne di La tragedia del Pizzo Palù (1929) di Arnold Fanck e George Pabst, interpretato dalla grande Leni Riefensthal (che ha permesso comunque di vedere o ri/vedere il film, assieme a Il trionfo della fede (1933), una sua regia, opportunamente messi in onda a Fuori Orario su Rai Tre da Enrico Ghezzi), fino a Orgoglio della nazione, l’inesistente film voluto da Goebbels che contiene non solo alcune sequenze analoghe a quelle de Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg, ma inserite quelle di Shoshana che spiegheranno ai morituri la vendetta, per non parlare del rogo ottenuto bruciando le pellicole di allora, altamente infiammabili.
Un film considerato un capolavoro prima ancora che i critici lo visionassero, ora oggetto di un’infinità di commenti che cercano di sezionarlo riproponendo ancora Tarantino come regista impegnato a montare e a smontare il meccanismo cinematografico, pescando a piene mani dalla serie B (sopratutto italiana, a cominciare dall’omaggio al film di Enzo Castellari a cui implicitamnte si richiama, Quel maledetto treno blindato, 1978), affermazione ripetuta dai tempi de Le iene (1992) chissà quante volte. In effetti l’abilità maestra di Tarantino consiste nello scrivere sceneggiature pirotecniche strizzando l’occhio al pubblico, costruendo un cinema di proprio gradimento che è l’epitome del cinema nelle sue varie estensioni, giocando con i codici e i generi ed infrangendoli, e di girarli utilizzando una gran serie di tecniche, magari fuori contesto (split scream, spostamenti di assi temporali, suddivisioni in capitoli, inserti documentari e così via) e in quel continuo fare del cinema sul cinema che piace tanto ai critici (probabilmente perchè nessuno è più in grado di raccontare storie…). Ma va detto che il meccanismo funziona perchè vende: un altro enfant prodige del cinema, il leggendario Orson Welles (questo sì un vero genio) che amava giocare con il cinema, era costretto a recitare per trovare i soldi per finire i suoi film, magari avanzando rulli di pellicola più o meno avariati.
In Bastardi senza gloria comunque c’è qualcosa di più che vale la spesa di un commento. A cominciare dalla sceneggiatura ora in libreria (Inglorius Bastards, Bompiani, pag. 163, euro 15, ), molto furba e ruffiana: che ponendo in scena un commando di soldati ebrei si mette al sicuro da ogni possibile accusa di “terrorismo” o di indebita “violenza”; e poi perché vista la difficoltà di poter girare un film bellico che non sia l’imitazione più o meno pedissequa di Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich, la scelta di usare modelli non di genere risulta vincente: pochissima azione, nessun scenario bellico, neanche l’ombra di una battaglia, lunghi dialoghi molto “tarantiniani”, molti interni e primi piani, colonna sonora eccezionale e straripanti citazioni (l’incipit, preso da I magnifici sette (1960) di John Sturges, con Menochet al posto di Bronson è splendido). Il tutto condito con la mano del regista, che, seppur nei limiti del “correttamente politico”, proprio corretto non è.
Certo, le “regole” fondamentali sono rispettate. I soldati tedeschi sono ubriaconi o traditori (l’unico tedesco dignitoso che rifiuta di dare informazioni sulle truppe viene massacrato dai “bastardi” a colpi di mazza da baseball), i francesi praticamente non esistono se non nella forma dei maquis o delle comparse, Shoshana ha una storia d’amore con l’altro “reietto”, il nero; Hitler sembra una parodia dei film comici italiani degli anni settanta, e Goebbels un perfetto idiota (al punto che perfino un critico “democratico” come Mauro Gervasini, su Film Tv n. 39 si è lasciato andare a un perplesso commento a proposito); ma gli americani non sono tutti eroi (cosa che i film bellici invece ci hanno spiegato da sempre). Forse la novità maggiore del film è proprio questa, ma tutta da discutere; come se il regista avesse giocato con le aspettative del pubblico (sopratutto americano) e con la percezione della guerra (e del film bellico). Cioè, come al solito, prendendo in giro tutti.
Infatti, se i killer sono ebrei (e gli attori che li interpretano hanno fattezze simili a quelle in cui la propaganda d’epoca ne disegnava i volti), il capitano afferma di avere sangue indiano nelle vene, comanda di scalpare i nemici abbattuti, e incide la fronte con una croce uncinata ai sopravvissuti. Scelta registica, segno che questo gruppo non è il tradizionale americano bianco e protestante? O aspettativa del pubblico per cui i “bastardi” anziché eroi di guerra americani, sono ebrei e pellirosse che vanno in giro in cerca di vendetta? La misurata riflessione de I giovani Leoni (1967) di Edward Dmytryk, o di Il grande Uno rosso (1980) di Samuel Fuller, in cui gli americani, ebrei o no, uccidono in preda alla furia, ma solo dopo la scoperta dei lager, è ben lontana.
Qui siamo nella bassa macelleria d’effetto, ma i macellai sono gli americani, non come al solito i nazisti. Succede perchè è un film ucronico, e nella realtà “altra” i nazisti non sono cattivi come in questa? In fondo il colonnello Landa, ordinato lo sterminio della famiglia di ebrei agli inizi, e strangolata l’attrice (Diana Kruger) che aveva preso contatto con gli americani alla fine, non compie nulla di particolarmente criminale; e neppure si vedono campi di concentramento, deportazioni di massa, immagini di sterminio, che quasi tutti i film bellici riescono a inserire.
Scelta registica anche questa, magari legata al fatto che non si parlava ancora dei campi? Provocazione di un autore che si diverte ad andare controcorrente nelle sue scelte? O dichiarata intenzione di buttare all’aria tutto? In fondo, nell’incipit di cui abbiamo parlato, Menochet lavora di scure sul ceppo come Bronson, ma non taglia la legna; il ceppo è assolutamente vuoto…

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