giovedì 8 ottobre 2009

In ricordo dei Soldati Italiani Prigionieri dei Bolscevichi

Riceviamo e pubblichiamo:

E PENSARE CHE SI CONCEDONO LORO ANCORA TANTI ONORI
Il lungo calvario del “davai”! (“avanti”!)

Sì, e pensare che a “loro” sono ancora intestate strade e strutture. Mi riferisco a due fra i mille e mille criminali del secolo trascorso. In un mare di criminali rossi, almeno due, in particolare, emergono: Palmiro Togliatti e Edoardo D’Onofrio. Scrivo queste righe per ricordare quanto è stato dimenticato da personaggi che ancora oggi, tanti di loro ancora in attività politica, si nascondono dietro una maschera di candida ingenuità, corresponsabili di quanto più avanti scriverò. La responsabilità di questa orrenda pagina di storia non va addebitata solo al Migliore (Palmiro Togliatti) e al suo vice, D’Onofrio, ma anche ai vari D’Alema e Occhetto che non hanno sentito il dovere di denunciare i crimini commessi dai vertici del Pci. Descrivere il peregrinare di Togliatti e di D’Onofrio fra l’Italia e l’Urss ci porterebbe molto lontani e, avvalendomi di un lavoro dell’indimenticabile Franz Maria D’Asaro, voglio iniziare il racconto a partire dal 1941, dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Urss, quando cominciano ad affluire nei campi di concentramento sovietici i soldati italiani fatti prigionieri; campi affidati, dai sovietici, al controllo di D’Onofrio. Raccontare i supplizi ai quali furono sottoposti quegli sventurati sarà mia cura accennarlo più avanti. Cominciamo a ricostruire le vicende del sottocapo del Migliore, Edoardo D’Onofrio, quando questi fu sottoposto a processo nel luglio del 1949, processo che mise in luce la sua spietatezza esercitata sui prigionieri italiani in Russia. Nel frattempo D’Onofrio divenuto senatore del Pci e addirittura Vicepresidente del Senato, ebbe l’impudenza di intentare causa contro cinque reduci dall’Urss, accusandoli di averlo diffamato. Ma il querelante subì uno smacco: i cinque reduci furono clamorosamente assolti. Ecco, sommariamente, quali erano le prove che D’Onofrio esibì.
Nell’aprile del 1948 venne stampato e diffuso, sotto il titolo “Russia”, un numero unico a cura dell’Unione Italiana Reduci di Russia; a pagina sette c’era un articolo dal titolo Edoardo D’Onofrio”, nel quale si poteva leggere: . Scrive ancora Franz Maria D’Asaro che la relazione portava le seguenti firme: Domenico Dal Taso, Luigi Avalli, Ivo Emmett e altri. E ancora a pagina sedici si poteva leggere: .


Nel corso del dibattito processuale emersero testimonianze disastrose per il senatore comunista. Si appresero, infatti, dettagliate conferme delle sevizie morali che il luogotenente di Togliatti infliggeva ai prigionieri, denunciando senza pietà alla polizia politica sovietica tutti coloro che si rifiutavano di cedere ad un vasto repertorio di lusinghe e di minacce. E questi bravi italiani finivano regolarmente nei campi siberiani dove morivano uccisi dagli stenti, dal freddo ed anche dai maltrattamenti. Per tutti valga la testimonianza del bersagliere Santoro il quale, dopo aver respinto le suadenti profferte di D’Onofrio, subito rinnovate con toni minacciosi, si sentì rispondere: .
Appena poterono, i sopravvissuti rilasciarono questo documento: . Il documento, firmato da centinaia di prigionieri, porta la data del 27 luglio 1946.
La testimonia diretta di coloro che vissero quel dramma è riportata di seguito.

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Il 7 dicembre 1998 la televisione italiana trasmise un documentario sulle vicende dei prigionieri italiani in Russia. Il filmato ha proposto un “Reportage cinematografico dai fronti della guerra patriottica”, è il titolo di un cinegiornale dell’Armata Rossa con l’intento – propagandistico e a scusante delle atrocità commesse – di presentare al mondo la vita quotidiana dei prigionieri italiani falsando macroscopicamente la verità.
Il film mostra i nostri prigionieri avviarsi, quasi con allegria, armati di forconi alla raccolta del grano, sotto un sole meraviglioso e circondati da belle contadine russe con le quali scambiano sorrisi e cenni come generalmente si usa fare fra giovani spensierati.
Alla fine della giornata di lavoro questi nostri (ex) giovanotti come è mostrato nel documentario, siedono in circolo nel kolkotz rifocillati abbondantemente e serviti da soldati e donne russe sorridenti
Questo – e molto di più – quanto mostrato nel documentario da poco rinvenuto negli archivi russi, come attestato dal commentatore.

E’ questa la verità?
Certamente no! Le sofferenze sopportate dai nostri infelici soldati caduti prigionieri e appartenenti prima al CSIR (Corpo Spedizione Italiano in Russia), poi all’ARMIR (Armata Militare Italiana in Russia), hanno dell’infernale.
Per anni, nell’immediato dopoguerra, ci si interrogò su quanti del CSIR e dell’ARMIR fossero i caduti, quanti i dispersi e, di questi, quanti caduti prigionieri.
Le pressioni dei parenti dei “dispersi” sul nostro Governo per avere notizie dei congiunti non trovarono che annoiata risposta essendo i responsabili dei vari dicasteri occupati a gestire i propri traffici personali o di partito e, quindi, non venivano esercitate sul Governo sovietico quelle sollecitazioni necessarie per ottenere risposte chiare s
ulla fine dei nostri soldati. Si giunse al punto (era la fine degli anni ’80) che il Presidente di una nostra Commissione, esattamente l’On. Flaminio Piccoli, proprio al cospetto di personalità sovietiche dichiarò che i nostri caduti in Russia non meritavano alcuna sepoltura cristiana perché colpevoli di aver condotto in quella terra una guerra fascista.

Ci fu, qualche anno dopo, una nuova fiammata che richiamò alla memoria i nostri Caduti dell’ARMIR, quando fu scoperta una lettera, nella quale, l’allora componente del Komintern, Palmiro Togliatti, sollecitava i guardiani dei lager sovietici a non preoccuparsi troppo se i nostri “alpini”, lì “ospitati” morivano di stenti perché più erano i caduti, più l’odio per il fascismo in Italia si sarebbe moltiplicato. Poi tutto si spense sulla bizantinistica interpretazione di un verbo o aggettivo contenuto in quella lettera autografa di Togliatti, che nulla toglieva al senso effettivo che il capo del PCI voleva dare e cioè: “far morire gli alpini” per danneggiare il fascismo.

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Le leggi internazionali stabiliscono precise norme riguardo al trattamento da riservare ai prigionieri di guerra, tali che a questi possa esser garantita la vita, la salute e l’onore.
Troppo spesso l’iniquo trattamento riservato ai nostri soldati caduti prigionieri degli inglesi, dei francesi, degli stessi americani, andava ben al di là di quanto prevedevano le su citate Convenzioni Internazionali.
Infatti nei campi di concentramento degli Alleati,
i casi di prigionieri italiani bastonati, incatenati, fucilati o tenuti a regime di fame era, se non la norma, perlomeno frequente. Non è mancato il perverso sistema, anch’esso in contrasto alle già citate norme, di suddividere i prigionieri fra “cooperatori” e “ non cooperatori”, cosa che comportava per questi ultimi ulteriori gravi pene e persecuzioni nel tentativo di spezzarne la resistenza morale e, quindi, la volontà. Vi furono numerosi casi di morti violente, arbitrarie fucilazioni e malattie dovute a un sistematico e programmato cattivo trattamento.
Ma tutto ciò, se pur grave non trova nessuna analogia con le scelleratezze cui andarono incontro i nostri soldati prigionieri dell’Armata Rossa.
Quanti furono i morti?
Ancora oggi non se ne conosce il numero esatto!
Come non evidenziare, a questo punto, lo scarso impegno (se non addirittura l’indifferenza) del Governo italiano nel pretendere dall’URSS un responsabile contegno nei confronti di un così tragico problema? Molto ottenne, al contrario, il vecchio Cancelliere tedesco, Adenauer che, prima di firmare gli accordi commerciali con quel Paese, pretese come condizione primaria, la risoluzione della questione dei prigionieri di guerra. In un sol colpo vennero restituiti alle loro famiglie ben novemila “criminali di guerra”.
Nel 1958, per sollecitare un più incisivo impegno del Governo italiano verso quello sovietico, una delegazione dell’Associazione Congiunti Dispersi in Russia fu ricevuta dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il quale così rispose ai rappresentanti dell’Associazione: “Purtroppo il Vostro problema è stato sacrificato per ragioni di Stato”.

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Durante le furiose battaglie e il tragico ripiegamento del dicembre 1942 e gennaio 1943, la radio russa comunicò che erano stati catturati circa 80 mila soldati dell’ARMIR. Certamente è una cifra gonfiata in eccesso per ovvi motivi di propaganda. In proposito Aldo Valori, nel volume “La Campagna di Russia; CSIR-ARMIR, 1941-1943”, a pagina 739 scrive: .
Effettivamente la furia della battaglia che divampò fra il 15 dicembre 1942 e il 31 gennaio 1943 divorò interi reparti. A questo proposito è sintomatico il tributo di sangue del reparto lanciafiamme del Comando Corpo d’Armata che lasciò sul campo il 91% della sua forza; infatti su 310 effettivi se ne salvarono 29.
E’ interessante quanto riportato in merito nella seconda edizione della “Grande Enciclopedia Sovietica”, pubblicata nel 1953 – Volume XIX, pagina 85, dove si stabilisce che le perdite complessive degli italiani nella campagna di Russia assommano a 150 mila unità. I prigionieri sarebbero stati solo 21 mila.
In questo tragico balletto di cifre, scandalosamente reticente, s’introdusse anche Palmiro Togliatti che, in una trasmissione da Radio Mosca, chiamata “La Voce della Verità”, esasperato perché in Italia si dubitava dell’esattezza delle notizie che venivano dall’URSSS, ribadiva che i prigionieri italiani erano 115 mila.

Consideriamo come più veritiera la cifra, come sopra indicata di 60 mila prigionieri italiani, dato che di 40 mila se ne è perduta la traccia, si evince che i due terzi risultano “dispersi”; perdite di gran lunga superiore a quelle fornite sui decessi che avvenivano nei famigerati lager tedeschi che raggiungevano il 40% degli internati.
L’agonia dei nostri soldati iniziava sin dal momento della loro cattura, sospinti e brutalmente malmenati al grido di “davai”.
Scrive Aldo Valori a pagina 742 del già citato volume: .
Un’agghiacciante testimonianza su queste brutalità ci è fornita da Gabriele Gherardini nel suo volume “La vita si ferma”, dal quale riportiamo ampi stralci: . Poi avvenivano le perquisizioni che erano, in effetti, vere e proprie spoliazioni non solo di oggetti, ma addirittura di quel vestiario che, bene o male, riparava i corpi dal terribile inverno russo.
Una volta giunti al campo, così Gherardini continua: . E iniziò la rapina di quegli indumenti che erano sfuggiti alle prime persecuzioni, furono sottratti perfino i pantaloni. .
E la fame, la fame era il supplizio peggiore alla quale erano sottoposti i nostri soldati; si pensi, ricorda Aldo Valori, che durante una marcia di dodici giorni il cibo venne distribuito due sole volte!
La testimonianza più viva viene fornita da chi quelle vicende le visse di persona; riporta Gherardini a pag. 201: .
Finalmente (!) si giunse a destinazione, nei lager russi, in quei luoghi dove le sofferenze e le umiliazioni toccarono il loro apice. Ma dove l’orrore raggiunse il massimo fu nei due campi di Oranski e di Krinovaja.
Ci è dato citare di nuovo la testimonianza di Gherardini. A questo punto dobbiamo scusarci con il lettore di quanto più avanti dovrà prendere atto. La Storia, ma soprattutto la memoria non può, non deve fermarsi davanti al buon gusto, al ribrezzo, all’orrore. Sono fatti realmente avvenuti e quindi vissuti che hanno reso i carnefici mostri e mostri le stesse vittime.
Ciò premesso, ecco quanto scrive Gherardini a pag. 221:S.
In questo quadro infernale, a causa dell’assoluta mancanza delle più elementari norme igieniche, si scatenò nei campi una violenta dissenteria sanguigna che in pochi giorni si sviluppò in forma violentissima i cui effetti furono letali.
Il contagio della pestilenza era favorita dalla mancanza d’acqua. Ricorda sempre Gherardini che nel campo di Krinovaja c’era un pozzo sempre affollato che alla fine, per la ressa selvaggia, inghiottì un prigioniero che morì all’istante congelato. Non per questo gli uomini assetati si dissuasero dall’attingere acqua nel luogo dove galleggiava il cadavere. Dopo pochi giorni altri uomini precipitarono nel pozzo e nuovi cadaveri ne ostruivano la bocca. Si attingeva acqua scostando i corpi. Alla fine, quando i prigionieri lasciarono il campo, il pozzo era colmo di cadaveri.
Queste brevi note non sono che una sintesi di quanto i nostri compatrioti soffrirono in quegli anni e la cui memoria tende ad offuscarsi, oltre che per il tempo anche per la manigolda politica tendente a “che certe storie è bene non ricordarle per non dispiacere a qualcuno”.

Per Gentile concessione di Filippo Giannini

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