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martedì 9 novembre 2010

Recensione incontro 7 Novembre presso Casa D'Italia Colleverde

E' una calda Domenica mattina di Novembre quella che vede - attraverso una sinergia tra Casa d'Italia Colleverde e Raido (in qualità di Delegazione Romana dell'Istituto Storico RSI) - la presentazione del nuovo libro del ricercatore Pietro Cappellari dal titolo "Lo sbarco di Nettunia e la battaglia per Roma".

L'incontro, presentatosi da subito come una "chiacchierata informale", ha attratto una folta platea, che ha dimostrato di aver gradito l'esposizione, caratterizzata da uno stile espositivo chiaro e conciso.
La presentazione del lavoro storico si è arricchito nello svolgimento dalla esposizione di molti fatti storici inediti e, guarda caso, spesso in contrasto con le "verità ufficiali" che dal 1945 ad oggi, ci vengono ancora propinate.
Al termine della presentazione editoriale, per sottolineare lo spirito di abnegazione che spesso muoveva i volontari della RSI che andarono a combattere sul fronte di Nettuno, è stata proiettata una video-intervista realizzata dai ragazzi della Comunità militante Raido ad un combattente italiano della divisione SS "Leibestandarte Adolf Hitler" che ha incuriosito, e allo stesso tempo commosso, i presenti per i fatti ed i ricordi riportati dalla viva voce del protagonista.
Dopo la conferenza, come sempre, è stato quindi possibile consumare un luculliano pranzo in cameratesca compagnia, presso il pub "La Vedova Nera", preparato dalle capaci mani dei camerati di Casa d'Italia.
L’incontro del 7 Novembre è stato soltanto l’incipit per una serie di eventi che vedranno coinvolte le due realtà militanti. In quest'ottica, infatti, si sta già organizzando la presentazione del libro di Niccolò Giani "Mistica della Rivoluzione Fascista" in uscita il 27 Novembre per la casa editrice catanese "Il Cinabro".

lunedì 17 maggio 2010

CAPPELLARI E LO SBARCO DI NETTUNIA


Daniele Lembo intervista il ricercatore di frontiera della Fondazione RSI


La curiosità ci ha spinto a recarci nello studio del Dott. Pietro Cappellari di Nettuno, ricercatore della Fondazione della RSI – Istituto Storico, che con i suoi lavori ha acceso un vivo dibattito storiografico sulle vicende della Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, della Repubblica Sociale Italiana. Entriamo in una stanza con centinaia di libri e documenti accatastati come in un bunker, la scrivania dello studio sembra una postazione di lancio per i missili Shahab-3, sul tavolo una cartina militare di Fiume e dell’Istria, sempre aperta.

D.L.: Dopo il tuo ultimo libro, verrebbe da dire: ancora Cappellari?

P.C: Effettivamente, dopo l’uscita de “I Legionari di Nettu

nia”, molti ad Anzio e Nettuno avrebbero preferito che tacessi per sempre. Troppi miti erano stati sfatati in un colpo solo. Il sacrificio dei ragazzi di Nettunia per la Patria ha fatto arrossire non pochi che per decenni avevano occultato tutto ciò e vivevano di rendita sfruttando l’odio antifascista. Quando è uscito il mio nuovo studio, “Lo sbarco di Nettunia e la battaglia per Roma”, è come se avessero incassato un nuovo duro colpo. La disperazione si è trasformata in isteria.

D.L.: Quali sono le novità storiografiche che hai lanciato nel dibattito culturale con “Lo sbarco di Nettunia”?

P.C.: Essenzialmente la visione nazionale della storia in q

uestione. Abbiamo sempre assistito a un allineamento completo della cultura marxista o cattolica a una visione angloamericana dei fatti storici. In poche parole, si è assorbita come realtà storica di fatto la propaganda statunitense. Questo lavoro rifiuta questo “assorbimento”, ponendo al centro la ricerca scientifica e l’analisi dei documenti, senza badare al politicamente corretto, alla mitologia dei “liberatori”. Per me hanno contato solamente i fatti. Nessuna censura in omaggio agli Alleati. Questo lavoro riporta al centro della storia l’Italia, soprattutto quegli Italiani che non piegarono il capo, né salirono sul carro dei vincitori. Si tratta di una storia negata, che non è mai stata scritta. Ebbene, io ci ho provato.

D.L.: Uno studio di ben 570 pagine, un lavoro monumentale. Leggo dall’indice: “La fandonia di Angelita” e “Il martirio di Giulia Tartaglia”…

P.C.: Sì, una grande soddisfazione che ripaga di tanti sacrifici. Non esiste una ricerca sul campo sullo sbarco di Nettunia che abbia raggiunto tale “spessore”. Ho inquadrato le operazioni militari nei “giochi” della politica internazionale, arrivando a porre i riflettori anche su episodi di cronaca locale sfruttati dalla propaganda antifascista e anti-italiana o occultati in omaggio ai “liberatori”. Angelita

e Tartaglia sono due storie simbolo. La prima, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, non è mai esistita e rappresenta la caratteristica più evidente della vulgata: la falsità. La seconda, purtroppo, è esistita veramente e su di lei è scesa una cappa di silenzio e di omertà che disgusta. Tartaglia, infatti, venne stuprata e sventrata con un coltellaccio da un soldato afroamericano. La sua storia venne sepolta insieme a lei, perché nella costruzione del mito dei “liberatori”, di questo episodio – come di tanti altri – non si doveva assolutamente parlare.

D.L.: Della Resistenza, cosa ci dici?

P.C.: Ho evidenziato l’assenza della Resistenza nelle province di Roma, Littoria e Frosinone e analizzato alla luce dei documenti i “legittimi atti di guerra” che si verificarono nella Capitale a opera dei GAP in concomitanza con le operazioni di sbarco. Anche in questo caso si è cercato di riportare il tutto alla realtà dei fatti, smentendo i dati che parlano delle “pesanti perdite” inflitte ai Germanici e dando un volto e un nome ai fascisti – quasi tutti giovani volontari di guerra – o ai civili caduti durante gli attentati dei comunisti, di cui uno anche in una sede dell’Opera Nazionale Balilla dove erano in coda per prendere un sussidio vedove e orfani di guerra…

D.L.: Quali sono le “scoperte” che hanno destato l’interesse degli studiosi?

P.C.: Beh, diciamo, il libro è tutta una scoperta. Pagina dopo pagina, il lettore è messo in discussione, anche duramente, viene coinvolto in prima persona. 570 pagine di intensa riflessione su una storia mai scritta. Tuttavia, tra i numerosi episodi che una certa storiografia ha occultato, particolare interesse hanno provocato in

me due fatti: la sconfitta dei Rangers a Cisterna di Littoria del 30 gennaio ’44 e la straordinaria esperienza dei cecchini fascisti romani. Infatti, per decenni si è voluto far credere che i Rangers avevano combattuto una delle più epiche battaglie della storia, sacrificandosi tutti sul campo, mitra nelle mani. La realtà è che, subito circondati, deposero tutti le armi, una resa di massa – questa sì – unica nella storia. Anche gli Ufficiali statunitensi, che erano stati incitati a sparare sui propri uomini per non farli arrendere, gettarono le armi. Il secondo fatto di una novità clamorosa riguarda l’epopea dei cecchini fascisti romani che per tre giorni, dal 4 al 6 giugno 1944, diedero filo da torcere alle truppe americane che stavano occupando la Capitale. Anche questa è una storia che non è mai stata scritta e sono orgoglioso di essere stato il primo a raccontarla.

D.L.: Noto una importante “appendice” al libro…

P.C.: Certamente, ho curato anche degli aspetti correlati al

lo sbarco di Nettunia, come

la storia del Campo della Memoria – che raccoglie i resti di quei giovani italiani che combatterono su queste terre – o la storia degli incidenti di Nettuno del 28 maggio 1989, quando – fatto unico nella storia d’Europa – il corteo presidenziale americano venne interrotto da una manifestazione di neofascisti. Si tratta della prima ricostruzione di quell’evento e molto interessante è andare a rileggere cosa scrisse, ad esempio, Gianni Alemanno – oggi Sindaco di Roma – all’indomani di quegli incidenti…

D.L.: Sei un “dissacratore”, hai demolito dalle fondamenta il mito dei “liberatori”. Cosa c’è d’aspettarsi in futuro?

P.C.: Sì, esatto. Bisogna sempre guardare con sospetto chi “sacralizza” un fatto storico. E’ come se volesse impacchettarlo, nasconderlo alla vista di tutti, “venderlo” per garantirsi una rendita a cui non ha diritto. Tutto coloro che parlano di “liberatori”, politicizzano la storia,

impacchettandola secondo la propria visione del mondo. Qualcosa di scorretto che, purtroppo, è entrato anche nelle scuole. Quanti giovani escono plagiati da storielle raccontate da chi ha un interesse politico a dividere i contendenti di un conflitto mondiale in “bene assoluto” e “male assoluto”? Con i miei lavori ho prima dimostrato che la Repubblica Sociale Italiana fu uno Stato che attirò il fior fiore della gioventù di Anzio e Nettuno, poi ho demolito il mito dello sbarco alleato in delle città che di quel mito si sono alimentate per decenni, adesso…

D.L.: Adesso?

P.C.: Il colpo finale. Chiuderò i conti con la propaganda antifascista e anti-italiana. A settembre uscirà un mio nuovo libro sulla storia del Comune di Nettunia. Ricostruirò nei dettagli cosa avvenne dopo l’8 settembre 1943 ad Anzio e Nettuno e i locali antifascisti scopriranno che per sessant’anni hanno portat

o dei fiori… alle Camicie Nere!

D.L.: Bene, ci sarà da ridere!

P.C.: O da piangere… dipende dai punti di vista!

Daniele Lembo

martedì 27 aprile 2010

Novità editoriale


Riceviamo e pubblichiamo:

FINALMENTE DISPONIBILE IL “LIBRO-VERITA’” SULLO SBARCO DI NETTUNIA

Il nuovo lavoro di Cappellari è a disposizione degli studiosi della Seconda Guerra Mondiale

Dopo mesi di attesa è uscito per i tipi della Herald Editore il monumentale volume su Lo sbarco di Nettunia e la battaglia per Roma (22 gennaio - 4 giugno 1944), uno studio politicamente scorretto, che infrange certezze consolidate da anni, spaziando dalla politica internazionale, fino ad arrivare a singoli episodi rimossi dalla memoria collettiva. Un’opera che si pone al centro del dibattito storiografico, frutto di uno studio pionieristico del Dott. Pietro Cappellari, ricercatore della Fondazione della RSI – Istituto Storico di Terranuova Bracciolini (AR).
In totale 570 pagine, un “mattone con copertina” per stomaci forti, un’arma impropria da lanciare contro le vetrine delle “immacolate vergini concezioni” della vulgata antifascista e anti-italiana. Un’opera che non può mancare nelle biblioteche di chi ama la storia e di chi vuole conoscere cosa è stato occultato per 65 anni dalla storiografia ufficiale.
Ha scritto il Prof. Alberto B. Mariantoni, che ha curato la quarta di copertina:
“Tempo di Storia, con la ‘S’ maiuscola. Tempo di immancabile e doverosa rimessa in discussione degli innumerevoli miti e delle vanagloriose leggende di guerra dei soliti ‘liberatori’. Tempo, in fine, di una oggettiva e salutare rivalutazione di tutti quegli Italiani che, per libera scelta e piena determinazione, rifiutando l’armistizio e il tradimento regio dell’8 settembre 1943, ebbero il coraggio di lanciare intrepidamente il loro cuore oltre l’ostacolo, e di contrastare valorosamente metro per metro, con il loro volontario ed esemplare sacrificio, il rullo compressore dell’incontenibile invasione militare angloamericana, fino dentro le mura di Roma.
In una frase: tempo di ritorno alla realtà dei fatti.
In particolare, in questo suo ultimo (last but not least…) lavoro, Cappellari ci permette di penetrare negli anfratti nascosti e fino ad ora proibiti della genuina ricerca storica e di scoprire, meravigliati e sorpresi, una serie di fatti e di situazioni che smentiscono, in larga misura, la vulgata a proposito del celebre sbarco angloamericano di Nettunia.
Scopriamo, al momento dello sbarco alleato sulle spiagge di Nettunia, l’eroismo dei soldati germanici, dei Paracadutisti del ‘Folgore’, dei Marò del ‘Barbarigo’, degli uomini delle SS italiane, degli equipaggi dei barchini esplosivi della X MAS, nel tentativo di contrastare e respingere le forze di invasione angloamericane. L’abnegazione e il coraggio di 40 studenti italiani dei Gruppi Universitari Fascisti, volontari nella Luftwaffe, che furono in grado, nella zona di Cisterna, di ostacolare i reiterati assalti dei Paracadutisti statunitensi. L’eroica morte di Carlo Faggioni dei reparti Aerosiluranti italiani. L’epopea dei cecchini fascisti di Roma che, per ben tre giorni, combatterono contro gli Statunitensi una guerra dimenticata da tutti.
Scopriamo parimenti la fandonia di ‘Angelita di Anzio’ (Angelita non è mai esistita!) e la Resistenza immaginaria… sui Colli Albani e i Monti Lepini (salvo casi di violenza personale ad Ariccia e a Palestrina…).
Pietro Cappellari, in questa sua istruttiva ed accattivante opera, ci parla di moltissimi altri episodi che, fino ad oggi, sono stati volutamente celati e colpevolmente ‘coperti’, agli ignari cittadini, dall’antifascismo italiano del secondo dopoguerra.
Ci parla, in particolare, dei territori laziali ‘liberati’; del mercato nero organizzato dai soldati USA con la collaborazione di delinquenti comuni e di incalliti imbroglioni italiani. Ci racconta di Am-Lire e di prostituzione (le famose ‘signorine’… così care ai GI’s statunitensi).
Insomma – il va sans dire… – è un libro assolutamente da leggere e da fare leggere, da meditare e da fare meditare”.
Il testo è disponibile presso la sede della Delegazione Romana della fondazione istituto storico RSI.

Lemmonio Boreo

domenica 25 aprile 2010

ONORE A CHI HA COMBATTUTO PER LA PATRIA

Riceviamo e pubblichiamo:

Commemorati i 100.000 Italiani caduti nell’adempimento del proprio dovere

Anche quest’anno, l’ultima domenica di aprile, in occasione del LXV anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale (2 maggio 1945), al Campo della Memoria si è svolta una solenne cerimonia in onore dei caduti della Repubblica Sociale Italiana.

Circa quattrocento persone, giunte da tutta la regione, si sono ritrovate in una straordinaria e assolata domenica: “Sole che sorgi, libero e giocondo, sui nostri colli i tuoi cavalli doma”, sembrerebbe ispirare questa giornata, parafrasando Puccini.

La cerimonia ha avuto inizio con la sfilata dei labari delle associazioni combattentistiche e d’arma, tra cui spiccava la fiamma di combattimento della Decima Mas e il labaro, decorato di decine di medaglie d’oro, della Sezione romana dei Volontari di Guerra.

Il Sindaco di Anzio e il Senatore Candido De Angelis, presenti come sempre alla cerimonia, hanno depositato, a nome del Comune, un cuscino di fiori sul sarcofago in marmo che racchiude le spoglie di sette combattenti ignoti della Decima MAS.

Poi, la Santa Messa, solennemente officiata al campo in rito tridentino pre-conciliare da un Sacerdote della Fraternità San Pio X di Albano. La stessa Santa Messa che i combattenti italiani della Seconda Guerra Mondiale ascoltavano sui fronti di battaglia d’Europa e d’Africa. Con la stessa unione di spirito, i quattrocento partecipanti hanno ascoltato la celebrazione.

Sono passati 65 anni da quei giorni in cui il cannone tuonava sul Vecchio Continente. Eppure, quattrocento Italiani, in maggioranza giovani, si sono ritrovati in silenzio, in una domenica di aprile, a ricordare chi si è sacrificato per la Patria, immolandosi per un’Idea, vincendo la morte, sublimandosi nella vittoria dello spirito. Quella eterna, che nessuno potrà mai cancellare.

Strani fenomeni si registrano qui. Dove la vita e la morte si fondono in un nastro tricolore con su scritto “amor di Patria”.

E pare vederli qui, al Campo della Memoria, quei ragazzi di meno vent’anni che, nella primavera di guerra del 1944, corsero a Nettunia per difendere “l’onore d’Italia”. Pare vederli negli occhi dei ragazzi qui presenti 65 anni dopo che, sull’attenti, ascoltano – e cantano! – l’inno nazionale.

Non v’è stata frattura. Si è vinto l’oblio. Il testimone è passato di mano. Nei cuori puri dei giovani accorsi al Campo della Memoria, chiamati dal dolce richiamo della Patria, v’è lo stesso ideale che spinse i giovani della Repubblica Sociale Italiana a scagliarsi contro i carri armati angloamericani con un pugnale nella mano e un fiore nella bocca. Perché la morte in battaglia, per quei ragazzi, era una cosa dolce e profumata: «I nomi di chi muore per la Patria sono impressi in oro nel cuore di Dio», ha detto il Sacerdote commuovendo la folla intervenuta.

Poi, è stato letto dai giovani presenti il lungo elenco dei Marò del Battaglione “Barbarigo” caduti che riposano in questo cimitero di guerra.

Particolare emozione ha suscitato il breve ricordo nella preghiera di chi, in questo ultimo anno, ci ha lasciato precedendoci nella Patria del Signore: Raffaella Duelli Ausiliaria della Decima MAS, Bartolo Gallitto Agente Speciale del Battaglione “Nuotatori Paracadutisti” e il Prof. Pio Filippani Ronconi Ufficiale delle SS italiane ferito sul fronte di Nettunia.

Infine, è stata letta La preghiera del Legionario, che i soldati erano soliti recitare prima di andare in battaglia: «…Oh Signore, fa della tua croce l’insegna, che precede il labaro della mia Legione e salva l’Italia, l’Italia, l’Italia, sempre e nell’ora di nostra bella morte…».

Tre volte è risuonato il “Presente!” per tutti i combattenti della Repubblica Sociale Italiana, caduti per l’onore d’Italia.

La solenne cerimonia si è così conclusa e un senso di pace si è diffuso tra i numerosi intervenuti. Il sole baciava ancora la grande croce in marmo, simbolo della Decima, che regna al centro del Campo quando, una giovane ragazza, ultima ad andar via, ha deposto sul sarcofago dei caduti repubblicani una rosa rossa. Pegno d’amore. L’amore per l’Italia.

Pietro Cappellari

Ricercatore Fondazione RSI – Istituto Storico

lunedì 8 marzo 2010

L’IMPROBABILE GIUSTIFICAZIONE DELLE FOIBE

Quando l'ideologia distorce la realtà dei fatti



Quest’anno non avevo ritenuto opportuno soffermarmi sul “Giorno del ricordo”, la giornata che questa smemorata Repubblichetta democratica dedica all’olocausto del popolo italiano d’Istria e Dalmazia. Tuttavia, un “improvviso” articolo comparso sul settimanale “Il Granchio” del 5 marzo 2010, a firma del Sig. Fiorenzo Testa dell’Associazione culturale “Acquadolce”, mi ha convinto a intervenire direttamente sulla questione del “giustificazionismo” delle foibe.

L’articolo su citato inizia con un attacco, davvero campato in aria, alla redazione de “Il Granchio”, colpevole di non dare una “vera informazione”, dando spazio, invece, alle testimonianze di “ex-repubblichini” (?), “ignorando completamente le ricerche provenienti dal mondo accademico”, ecc.

Tutta questa indignazione è stata provocata dalle pagine – di semplice cronaca – che il giornale ha dato alle celebrazioni della “Giornata del ricordo”, in cui si asseriva che erano stati diecimila gli Italiani infoibati dai partizan slavo-comunisti. Effettivamente, gli infoibati erano stati circa cinquemila e il dato diecimila era forse più da riferirsi al totale degli Italiani “scomparsi” durante una delle più feroci opere di pulizia etnica che la storia ricordi. Un refuso che, però, è servito per impiantare il solito discorso “giustificazionista” delle foibe.

Molto strano che il Sig. Testa non sia intervenuto con un articolo di protesta dopo i più gravi svarioni che si sono dovuti registrare durante i giorni dedicati al ricordo dell’Olocausto degli ebrei. Come mai lo zelo è scattato solamente quando si è parlato delle foibe? Quando le vittime erano gli Italiani e i carnefici i comunisti?

Il dramma che colpì il popolo italiano d’Istria e Dalmazia sul finire della Seconda Guerra Mondiale è stato espulso dalla storia del nostro Paese. Per decenni, sul più grave lutto che ha colpito la nostra comunità nazionale, nessuno ha mai proferito una parola. Solo negli ultimi anni, si è aperta quell’immensa fossa comune della memoria in cui era stata gettata la nostra storia. E ciò ha dato, comprensibilmente, fastidio a più di qualcuno che complice morale con quegli eccidi era.

Quegli studi di “illustri” accademici e storici che vengono astrattamente chiamati in causa, sono forse gli studi di coloro che per anni hanno ignorato le foibe, magari preferendo scrivere liriche al Maresciallo Tito? Oppure sono gli studi degli istituti della Resistenza? O sono gli studi degli “illustri accademici” slavi come Joze Pirievic, cui ha risposto il Prof. Giuseppe Parlato evidenziando la partigianeria del “collega” sloveno?

Bella storia. Davvero bella, quella partorita dalla fantasia.

Si sostiene che le celebrazioni del 10 febbraio sono state volute dal Governo Berlusconi per utilizzarle politicamente in chiave anticomunista. Nel 2010, ancora si parla di anticomunismo? Ma dove è il comunismo? La “Giornata del ricordo” ha ben altre radici, è il classico contentino “soporifero” dato agli esuli per non protestare più e, nel contempo, permettere ai Governi di centro-destra di rinunciare vilmente ai legittimi interessi italiani nell’Adriatico nord-orientale.

Probabilmente sono ben altre le “ricorrenze” che in Italia vengono utilizzate per fini politici, vero?

Dove si giunge al paradosso è quando si afferma che l’olocausto del popolo istriano-dalmata è “una diretta eredità del Ventennio fascista, dell’occupazione italiana dei Balcani, della Seconda Guerra Mondiale”. Ma certo! Nessuno ci aveva pensato.

Questa affermazione è il tipico “scudo difensivo” usato dagli apologeti del movimento di resistenza per giustificare un crimine senza precedenti. E’ il “giustificazionismo” che molti usano quando si sentono piccati nel proprio intimo. Perché deve essere chiaro, anche il PCI fu responsabile diretto di quella tragedia.

La discussione si dovrebbe allora chiudere qui. I “Gendarmi della memoria” hanno prima condiviso quelle scelte, poi le hanno nascoste, adesso le giustificano. E’ il solito “filo rosso” dell’egemonia culturale di gramsciana memoria. Per costoro un massacro di Italiani è un massacro sempre giustificato.

Tuttavia, nell’articolo si citano “dati storici” e allora ci è parso giusto fare delle precisazioni.

Si comprende benissimo come l’autore non abbia mai studiato attentamente il problema del confine orientale italiano, molto più complesso di quello che si accenna e, comunque, di molto antecedente al 1918 e, soprattutto, della costituzione del Regime fascista.

Secondo quanto si vuol far credere, con la vittoria nella Prima Guerra Mondiale, il Regno d’Italia si trovò ad amministrare “territorio sloveno”. Quale?

Certo, si ignora palesemente la composizione etnica dell’Istria riunita all’Italia. Basterebbe citare il censimento del 1921 per aver un quadro esatto di ciò, ma si salta ad altro, cercando di dipingere come “forzata e brutale” l’italianizzazione delle comunità slovene e croate che vivevano, dopo un processo migratorio, in quelle regioni.

Avremmo preferito dati concreti più che dichiarazioni di principio. Basterebbe pensare a quello che accadeva alla comunità italiana prima della scomparsa dell’Impero austro-ungarico. Ma anche ciò non viene detto.

Si accenna, immancabilmente, come da manuale, al famoso incendio del 1920 del “Darodni Dom” (?) di Trieste, indignandosi contro quel “criminale” attacco fascista e solidarizzando con i poveri amici sloveni perseguitati.

Come al solito, il fatto viene decontestualizzato e usato per sostenere argomenti che non stanno in piedi.

Il “Darodni Dom” – in realtà, era il Narodni dom, la “Casa del popolo (sloveno)” – rappresentava, nell’italianissma Trieste, la crescente pressione immigratoria slovena. Costoro, abbandonando le loro terre, si stavano riversando sui centri urbani italiani entrando, naturalmente, in conflitto con le preesistenti – da secoli! – comunità italiane.

La situazione era al limite del collasso e forti tensioni si registravano tra Italiani e Sloveni. La miccia che fece divampare l’incendio s’accese quando a Spalato, durante una manifestazione anti-italiana, vennero uccisi due militari del Regno d’Italia: il Comandante Tommaso Gulli – decorato poi di Medaglia d’Oro – e il motorista Rossi. Lo sdegno fu enorme e in tutte le città d’Istria vennero organizzati dei comizi di protesta. Durante uno di questi, a Trieste fu accoltellato mortalmente dagli Sloveni il cuoco Giovanni Nini. Un altro Italiano.

I fascisti reagirono attaccando i negozi sloveni in città e le sedi delle organizzazioni socialiste che, come loro tradizione, patteggiavano per tutti i popoli, tranne che per il loro.

Gli squadristi arrivarono di fronte al Narodni dom, difeso da circa quattrocento soldati del Regio Esercito contro i quali i fascisti non avrebbero mai iniziato le ostilità. Ci pensarono gli Slavi, che lanciarono dalle finestre della loro “Casa del popolo” due bombe a mano, iniziando a sparare non solo sugli squadristi, ma anche sui soldati italiani. Fu così che venne ucciso l’Ufficiale dei Carabinieri Reali Luigi Casciana. Di fronte a tutto ciò, i soldati del Regio Esercito risposero al fuoco e, poco dopo, fu incendiato l’edifico che esplose, in quanto i “pacifici e perseguitati” Sloveni lo avevano trasformato in un arsenale… Morì un solo Slavo, perché si gettò da una finestra per evitare le fiamme.

Come mai si è “sparlato” dell’incendio del Narodni dom e non si è mai accennato ai precedenti incendi degli edifici della Lega Nazionale (italiana) e delle altre associazioni culturali o sportive italiane a opera dei “poveri” Slavi?

Come mai si difende con tanto cuore l’identità nazionale dei Croati e degli Sloveni (che mai avevano avuto una loro nazione!) e non si spende una sola parola sull’identità nazionale italiana?

Dove si giunge al paradosso è quando si citano i crimini commessi dalle truppe del Regio Esercito durante la guerra nei Balcani, ignorando – anche questa volta! – i ben più gravi massacri dei partizan contro i nostri soldati. Ricordiamo che la guerriglia era una forma di lotta vietata da tutte le convenzioni internazionali, tant’è vero che la rappresaglia era una legittima forma di ritorsione usata da uno Stato belligerante costretto a confrontarsi con questa forma di guerra irregolare. I nostri Bersaglieri a cui erano strappati gli occhi dai partigiani slavo-comunisti, del resto, non hanno mai fatto pietà a nessuno.

Ci si lamenta anche del fatto che i Comandanti italiani accusati di crimini di guerra nei Balcani non sono stati estradati come chiedeva il Maresciallo Tito. Certo. Si sarebbe garantito loro un equo processo? O sarebbero finiti impiccati come prevedeva la prassi – e non la legge! – dei regimi comunisti? Si parla tanto di garantismo, di diritti umani, ma si sarebbero mandati al macello i nostri connazionali per crimini di guerra che non era neanche necessario provare. !

Che diritto avevano i comunisti slavi di condannare i Generali italiani – tra cui anche gli “eroi” della “Guerra di liberazione” – avendo nello stesso tempo le mani lorde di sangue di decine di migliaia di innocenti? Dov’è la tanto sbandierata “superiorità morale” della Resistenza?

Si citano i campi di concentramento italiani, senza nessun riferimento ai peggiori campi iugoslavi allestiti dopo la guerra – ripetiamo: dopo la guerra! – dal Maresciallo Tito, così amante della giustizia, della pace e della libertà dei popoli, da far scomparire nel nulla – senza nessun tipo di processo – migliaia di Italiani colpevoli solo di essere tali. Ma, si precisa, il 90% erano fascisti. Davvero sconfortante è dover rispondere ancora a queste affermazioni, dopo anni di studi e ricerche che hanno ben evidenziato i caratteri della pulizia etnica effettuata in Istria e Dalmazia dagli Slavo-comunisti con la complicità del PCI.

Del resto, questo è quello che sempre è stato sostenuto dalla vulgata: “Erano tutti fascisti e, in fondo, se la erano cercata”. E così, a Bologna, quando arrivò uno dei tanti treni merci che trasportava gli Italiani d’Istria e Dalmazia in fuga dall’inferno comunista iugoslavo, affamati, abbandonati a stessi, i bolscevichi bolognesi impedirono che fosse dato loro da mangiare e gettarono il latte destinato ai bambini sui binari. Bell’esempio di solidarietà operaia-internazionalista!

Non credo che sia necessario andare oltre.

In democrazia, mi dicono, il confronto e lo scambio di idee è una prassi. Allora invito il Sig. Testa a un pubblico confronto davanti a un giornalista de “Il Granchio”, dove sarò felice di visionare i suoi studi e suoi documenti. So bene la risposta, visto che questi inviti cadono sempre nel vuoto. Per i democratici, la democrazia serve solo quando fa comodo a loro.

Alla fine di questo articolo una cosa deve essere affermata. La più importante. Che l’Istria e la Dalmazia sono terre italiane contro cui, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, si abbatté la pulizia etnica dei partigiani comunisti avente il fine di cancellare la millenaria civiltà italiana nell’Adriatico nord-orientale. Chi nega tutto ciò, preferisce ignorare la storia dell’Istria e della Dalmazia. Ma si difetta anche in geografia e architettura. Sarebbe bastato solamente visitare Capodistria, Rovigno, Pola, Fiume, Traù, Zara, Ragusa “la bella”, ecc. e non parrebbe strano che lì “anche le pietre parlano italiano”. Con buona pace di chi, una volta l’anno, il 10 febbraio, dovrà convivere con il mal di pancia.

Pietro Cappellari


Ricercatore della Fondazione Istituto storico RSI