lunedì 1 febbraio 2010

Novità editoriale

Presto disponibile presso la sede della delegazione romana della Fondazione Istituto storico RSI, per ordini contattare il 06/86217334


Zibaldone d’un secolo baro vissuto dalla parte dei vinti

Avviso alle anime belle. È meglio che questo libro non lo leggiate. Non troverete il buonismo, il solidarismo mellifluo, gli atteggiamenti tartufescamente «super partes», la fatidica «memoria condivisa». Alla soglia delle sue ottanta stagioni, Piero Buscaroli con Dalla parte dei vinti - Memorie e verità del mio Novecento (Mondadori, pagg. 505, euro 24, nelle librerie domani) riscrive la storia della propria vita e della vita italiana del secolo scorso. È un libro caparbio, sincero, che non teme di essere sgradevole, fatto di tante staffilate e di poche, pochissime carezze. Un libro di parte? Sì, la parte dei vinti. Brillante inviato del Borghese, commentatore del Giornale, direttore del Roma di Napoli, coltissimo musicologo, autore di opere biografiche su Bach, Mozart e Beethoven che sono altrettante pietre miliari, Piero Buscaroli ricompone in questo libro la trama dei ricordi e delle migliaia di carte, articoli, appunti, taccuini, lettere che hanno intessuto la sua esistenza per dare alle stampe quello che a qualcuno potrebbe apparire un raffinato Zibaldone fra storia e memoria, musica e letteratura, e che invece è una dichiarazione di guerra. Lo ebbe a dire lui stesso comparendo in televisione nel 2005 accanto a Giuliano Ferrara nel sessantennio del 25 aprile. Alla solita domanda sulla sua appartenenza politica rispose: «Non mi considero un “reduce”, un “orfano di Salò”, sono un superstite della Repubblica Sociale Italiana in territorio nemico». Aveva tredici anni, Piero Buscaroli, quando prese le armi sull’esempio del padre, il professor Corso Buscaroli, colto latinista, che ritenne giusto schierarsi dopo lo sfacelo dell’8 settembre, divenne reggente del fascio repubblicano di Imola e per questo scontò, a Liberazione avvenuta, anni di carcere antifascista. Prese le armi (idealmente perché l’età non gli consentiva ancora di indossare la divisa della Rsi) dopo che il 4 novembre 1943 era stato ucciso il primo fra gli assassinati della guerra comunista, il seniore della Milizia Gernando Barani, fulminato con tre colpi di pistola a Imola, mentre tornava a casa in bicicletta. Primo di una lunga serie. Le armi Buscaroli non le ha mai deposte: ha visto cadere uccisi negli anni orribili 1943-1945 giovanissimi amici e persone della sua famiglia, ha visto il padre morire precocemente per le sofferenze patite in carcere, ha vissuto il dopoguerra e il nascere e consolidarsi della lunga menzogna resistenziale. Non si è mai riconciliato con i vincitori e in questo spirito dichiara ora le ragioni delle sue scelte politiche, culturali, morali «senza pentimenti, senza sospiri, senza lagrime». Nel libro si intrecciano le memorie della guerra europea, i sussulti del morente fascismo, gli spasimi dei Paesi prigionieri della Cortina di ferro dopo la spartizione, la tragedia vietnamita (conosciuti e narrati da inviato del Borghese), la denuncia dei crimini dei vincitori, le tante Norimberga, lo sterminio dei Cosacchi arruolati nella Wehrmacht e coscientemente sacrificati dagli inglesi. E quello che lui definisce «l’olocausto dell’aria», la distruzione delle città italiane e tedesche, il sacrificio dei civili. «Tra la resa dell’8 settembre e la fine della guerra - scrive Buscaroli - i civili italiani che persero la vita per rappresaglie tedesche furono diecimila; i morti nei bombardamenti inglesi e americani, sessantaquattromila». Forse qualcuno più informato di noi potrà anche contestargli le cifre, ma non il dato oggettivo che già Paolo Monelli aveva commentato in Roma 1943: «Il flagello distrusse in quel terribile mese (agosto ndr) più di quanto non guastarono assedi, incendi, sacchi e terremoti in mille anni». Nei documenti che costituiscono l’ossatura del suo memoriale, Buscaroli cita preziosi inediti trascurati anche da storici di fama quali Renzo De Felice (che lui taccia di superficialità), come i documenti di Franz Pagliani, nel 1943 vicesegretario del Pnf, sul doppio gioco dell’ex capo del Sim generale Giacomo Carboni, che il 23 luglio di quell’anno, due giorni prima della fatidica seduta del Gran Consiglio, cercò «di “vendere” il colpo di Stato militare a Mussolini che non credé nella sua esistenza». Quello stesso Carboni che nel periodo badogliano ebbe pesanti responsabilità nell’eliminazione dell’eroe di guerra Ettore Muti, «misteriosamente» ucciso dai carabinieri il 24 agosto 1943. La «riscrittura» del 25 luglio 1943 occupa i capitoli centrali del libro dedicati ai soggiorni dell’autore nel Giappone degli anni Sessanta e ai lunghi colloqui con l’amico barone Shinokuro Hidaka, ambasciatore a Roma e poi a Salò, l’unico che parlò con Mussolini la mattina del 25 luglio, l’unico a conoscenza della nota che lo stesso Mussolini aveva intenzione di consegnare a Hitler per ottenere uno sganciamento dell’Italia stremata dalla guerra ormai perduta. Affetto e rispetto porta Buscaroli alla memoria di Hidaka, come a quella del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwaengler, del grande giornalista Leo Longanesi, di Giuseppe Prezzolini, dell’arguta Emmy Sonnemann, vedova (ohibò) di Hermann Goering. Per molti altri sono sciabolate, da Dino Grandi al cugino Massimo Cacciari, da Indro Montanelli a Giorgio Almirante che non gli volle credere quando nel 1974 gli riferì le rivelazioni del ministro dell’Interno Taviani sulla paternità governativa degli attentati di destra e di sinistra. Gli ultimi due, bellissimi, capitoli del libro sono dedicati a Ezra Pound, conosciuto a Ravenna nel 1966: «il viso ... seghettato, lavorato, benissimo inciso come gli anni non potrebbero soli, senza la mola del pensiero, il trapano della curiosità, il rovello dell’ira, del dolore». E sono anche l’unico luogo del libro in cui Buscaroli si concede una divagazione aneddotica raccontando di come il poeta cucinasse eccellenti frittate. Per il resto, lo scrittore aborrisce il «lato umano», la conversazione conviviale «in cui il genio riesce sovente banale e brilla lo stupido di spirito». Crede solo «alla pagina, alla statua, alla tela, alla musica scritta». Ma per Ezra fa un’eccezione, quasi un delicato gesto di tenerezza, da vinto al grande vinto che «venne a vivere con noi le ultime abiezioni. Due, tre volte con noi. Gli sono grato di aver diviso con noi la discesa».

Redazione 31 gennaio 2010

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