Il lungo calvario del “davai”! (“avanti”!)
Sì, e pensare che a “loro” sono ancora intestate strade e strutture. Mi riferisco a due fra i mille e mille criminali del secolo trascorso. In un mare di criminali rossi, almeno due, in particolare, emergono: Palmiro Togliatti e Edoardo D’Onofrio. Scrivo queste righe per ricordare quanto è stato dimenticato da personaggi che ancora oggi, tanti di loro ancora in attività politica, si nascondono dietro una maschera di candida ingenuità, corresponsabili di quanto più avanti scriverò. La responsabilità di questa orrenda pagina di storia non va addebitata solo al Migliore (Palmiro Togliatti) e al suo vice, D’Onofrio, ma anche ai vari D’Alema e Occhetto che non hanno sentito il dovere di denunciare i crimini commessi dai vertici del Pci.

Nell’aprile del 1948 venne stampato e diffuso, sotto il titolo “Russia”, un numero unico a cura dell’Unione Italiana Reduci di Russia; a pagina sette c’era un articolo dal titolo Edoardo D’Onofrio”, nel quale si poteva leggere:


Alla fine della giornata di lavoro questi nostri (ex) giovanotti come è mostrato nel documentario, siedono in circolo nel kolkotz
Questo – e molto di più – quanto mostrato nel documentario da poco rinvenuto negli archivi russi, come attestato dal commentatore.
Per anni, nell’immediato dopoguerra, ci si interrogò su quanti del CSIR e dell’ARMIR fossero i caduti, quanti i dispersi e, di questi, quanti caduti prigionieri.
Le pressioni dei parenti dei “dispersi” sul nostro Governo per avere notizie dei congiunti non trovarono che annoiata risposta essendo i responsabili dei vari dicasteri occupati a gestire i propri traffici personali o di partito e, quindi, non venivano esercitate sul Governo sovietico quelle sollecitazioni necessarie per ottenere risposte chiare s

Troppo spesso l’iniquo trattamento riservato ai nostri soldati caduti prigionieri degli inglesi, dei francesi, degli stessi americani, andava ben al di là di quanto prevedevano le su citate Convenzioni Internazionali.
Infatti nei campi di concentramento degli Alleati,

Quanti furono i morti?
Ancora oggi non se ne conosce il numero esatto!
Come non evidenziare, a questo punto, lo scarso impegno (se non addirittura l’indifferenza) del Governo italiano nel pretendere dall’URSS un responsabile contegno nei confronti di un così tragico problema? Molto ottenne, al contrario, il vecchio Cancelliere tedesco, Adenauer che, prima di firmare gli accordi commerciali con quel Paese, pretese come condizione primaria, la risoluzione della questione dei prigionieri di guerra. In un sol colpo vennero restituiti alle loro famiglie ben novemila “criminali di guerra”.
Nel 1958, per sollecitare un più incisivo impegno del Governo italiano verso quello sovietico, una delegazione dell’Associazione Congiunti Dispersi in Russia fu ricevuta dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il quale così rispose ai rappresentanti dell’Associazione: “Purtroppo il Vostro problema è stato sacrificato per ragioni di Stato”.
Effettivamente la furia della battaglia che divampò fra il 15 dicembre 1942 e il 31 gennaio 1943 divorò interi reparti. A questo proposito è sintomatico il tributo di sangue del reparto lanciafiamme del Comando Corpo d’Armata che lasciò sul campo il 91% della sua forza; infatti su 310 effettivi se ne salvarono 29.
E’ interessante quanto riportato in merito nella seconda edizione della “Grande Enciclopedia Sovietica”, pubblicata nel 1953 – Volume XIX, pagina 85, dove si stabilisce che le perdite complessive degli italiani nella campagna di Russia assommano a 150 mila unità. I prigionieri sarebbero stati solo 21 mila.
In questo tragico balletto di cifre, scandalosamente reticente, s’introdusse anche Palmiro Togliatti che, in una trasmissione da Radio Mosca, chiamata “La Voce della Verità”, esasperato perché in Italia si dubitava dell’esattezza delle notizie che venivano dall’URSSS, ribadiva che i prigionieri italiani erano 115 mila.
Consideriamo come più veritiera la cifra, come sopra indicata di 60 mila prigionieri italiani, dato che di 40 mila se ne è perduta la traccia, si evince che i due terzi risultano “dispersi”; perdite di gran lunga superiore a quelle fornite sui decessi che avvenivano nei famigerati lager tedeschi che raggiungevano il 40% degli internati.
L’agonia dei nostri soldati iniziava sin dal momento della loro cattura, sospinti e brutalmente malmenati al grido di “davai”.
Scrive Aldo Valori a pagina 742 del già citato volume:
Un’agghiacciante testimonianza su queste brutalità ci è fornita da Gabriele Gherardini nel suo volume “La vita si ferma”, dal quale riportiamo ampi stralci:
Una volta giunti al campo, così Gherardini continua:
E la fame, la fame era il supplizio peggiore alla quale erano sottoposti i nostri soldati; si pensi, ricorda Aldo Valori, che durante una marcia di dodici giorni il cibo venne distribuito due sole volte!
La testimonianza più viva viene fornita da chi quelle vicende le visse di persona; riporta Gherardini a pag. 201:
Finalmente (!) si giunse a destinazione, nei lager russi, in quei luoghi dove le sofferenze e le umiliazioni toccarono il loro apice. Ma dove l’orrore raggiunse il massimo fu nei due campi di Oranski e di Krinovaja.
Ci è dato citare di nuovo la testimonianza di Gherardini. A questo punto dobbiamo scusarci con il lettore di quanto più avanti dovrà prendere atto. La Storia, ma soprattutto la memoria non può, non deve fermarsi davanti al buon gusto, al ribrezzo, all’orrore. Sono fatti realmente avvenuti e quindi vissuti che hanno reso i carnefici mostri e mostri le stesse vittime.
Ciò premesso, ecco quanto scrive Gherardini a pag. 221:S.
In questo quadro infernale, a causa dell’assoluta mancanza delle più elementari norme igieniche, si scatenò nei campi una violenta dissenteria sanguigna che in pochi giorni si sviluppò in forma violentissima i cui effetti furono letali.
Il contagio della pestilenza era favorita dalla mancanza d’acqua. Ricorda sempre Gherardini che nel campo di Krinovaja c’era un pozzo sempre affollato che alla fine, per la ressa selvaggia, inghiottì un prigioniero che morì all’istante congelato. Non per questo gli uomini assetati si dissuasero dall’attingere acqua nel luogo dove galleggiava il cadavere. Dopo pochi giorni altri uomini precipitarono nel pozzo e nuovi cadaveri ne ostruivano la bocca. Si attingeva acqua scostando i corpi. Alla fine, quando i prigionieri lasciarono il campo, il pozzo era colmo di cadaveri.
Queste brevi note non sono che una sintesi di quanto i nostri compatrioti soffrirono in quegli anni e la cui memoria tende ad offuscarsi, oltre che per il tempo anche per la manigolda politica tendente a “che certe storie è bene non ricordarle per non dispiacere a qualcuno”.
Per Gentile concessione di Filippo Giannini
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